La perentorietà del termine per il deposito del ricorso ex art. 702 bis c.p.c. e le possibili conseguenze in caso di inosservanza

Four years after its entry into force, the reform “Gelli – Bianco” raises still many questions. One among them is about the article 8 which provides for the consequences in the event of non-compliance with the deadline of 90 days to file the appeal pursuant to art. 702 bis of the Civil Procedure Code. The purpose of this article is to take stock of significant legal decisions taken by the courts in recent years, to help lawyers correctly interpret the norm.

Sommario: 1. La Legge Gelli – Bianco e la condizione di procedibilità – 2. La perentorietà del termine di conclusione del procedimento di consulenza tecnica preventiva – 3. Gli effetti della proposizione della domanda giudiziale – 4. Conseguenze in caso di inosservanza del termine di 90 giorni per la proposizione della domanda giudiziale: tesi a confronto – 5. Considerazioni finali e conclusioni

1. La Legge Gelli – Bianco e la condizione di procedibilità

La legge Gelli – Bianco, dell’8 marzo 2017 n. 24, recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, ha profondamente modificato la disciplina della responsabilità sanitaria reintroducendo, per quanto concerne la responsabilità civile, un sistema a doppio binario in virtù del quale alla responsabilità contrattuale della struttura sanitaria si affianca, nel caso in cui manchi un contratto, quella extracontrattuale del medico e, in ambito penale, l’esclusione della punibilità per imperizia laddove vengano rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida.

Sul piano processualcivilistico la novella ha, inoltre, previsto un meccanismo finalizzato a ridurre il contenzioso per i procedimenti di risarcimento da responsabilità sanitaria, mediante un tentativo obbligatorio di conciliazione da espletare a cura di chi intende esercitare in giudizio un’azione risarcitoria.

L’art. 8 della Legge n. 24/2017 impone, infatti, a chi voglia esercitare di fronte al giudice civile un’azione risarcitoria derivante da responsabilità sanitaria di tentare prima un percorso negoziale al fine di verificare la possibilità di evitare il processo.

Si parla di doppio “filtro” di procedibilità, in quanto l’assolvimento di questa condizione, prima dell’instaurazione del processo, si può avere sia seguendo il percorso della consulenza tecnica preventiva con funzione conciliativa prevista all’art. 696 bis c.p.c. sia attivando il procedimento di mediazione introdotto dal D. Lgs. n. 28/2010, procedimenti da esperire in via alternativa, su scelta del danneggiato, per tutte le controversie relative al risarcimento del danno prodotto da medical malpractice.

Ne consegue che, ad oggi, la proposizione di una domanda giudiziale di risarcimento dei danni nei confronti della struttura sanitaria o dell’esercente la professione sanitaria deve essere necessariamente preceduta dal tentativo di conciliazione o in sede di mediazione oppure in sede di consulenza tecnica preventiva.

L’art. 8, comma 1, della Legge 24/2017, prevede, infatti, che “Chi intende esercitare un’azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria è tenuto, preliminarmente, a proporre ricorso, ai sensi dell’articolo 696-bis del codice di procedura civile, dinanzi al giudice competente. 2. La presentazione del ricorso di cui al comma 1 costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento. E’ fatta salva la possibilità di esperire in alternativa il procedimento di mediazione ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28”. La medesima disposizione prescrive, poi, che l’improcedibilità debba essere eccepita dal convenuto o rilevata dal giudice, a pena di decadenza, non oltre la prima udienza.

La condizione di procedibilità si applica alle controversie di risarcimento del danno derivanti da responsabilità sanitaria, ossia quando la pretesa risarcitoria si fonda su una qualsiasi ipotesi di responsabilità sanitaria, sia questa derivante dall’opera del medico della struttura sanitaria, sia questa derivante dalla violazione di altri obblighi in capo alla struttura sanitaria ed insiti nel contratto di spedalità; mentre restano escluse le azioni di rivalsa eventualmente esercitabili nei confronti del medico responsabile dalla struttura sanitaria ovvero dall’assicurazione.

Inoltre, è esclusa l’operatività della condizione di procedibilità quando l’azione non sia esercitata di fronte al giudice civile, ciò accade, ad esempio, ove l’azione risarcitoria sia esercitata nel giudizio penale ovvero quando le parti abbiano scelto l’arbitrato o, ancora, quando si abbia a che fare col giudizio di responsabilità amministrativa di fronte alla Corte dei conti nell’ipotesi in cui la responsabilità del medico sia emersa in una struttura sanitaria pubblica, caso in cui l’esclusione è, peraltro, sancita anche da ragioni oggettive, non trattandosi qui di un’azione risarcitoria.

2. La perentorietà del termine di conclusione del procedimento di consulenza tecnica preventiva

Nel caso in cui il danneggiato decida, dunque, di introdurre un giudizio di consulenza tecnica preventiva con funzione conciliativa ex art. 696 bis c.p.c. è previsto, poi, al comma 3 del predetto art. 8 della legge n. 24 citata, che “la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all’articolo 702 bis del codice di procedura civile. In tal caso il giudice fissa l’udienza di comparizione delle parti; si applicano gli articoli 702 bis e seguenti del codice di procedura civile”.

Al fallimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, la norma citata equipara, dunque, l’ipotesi in cui il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso: la proposizione della domanda giudiziale deve avvenire, infatti, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio di sei mesi stabilito per la durata del procedimento.

Certamente dei primi dubbi ha sollevato la previsione di un termine fisso per la conclusione del procedimento di consulenza tecnica preventiva, atteso che il terzo comma dell’art. 8 fissa un termine di durata massima della procedura di sei mesi a decorrere dal deposito del ricorso, termine espressamente qualificato come perentorio, e come tale, ai sensi dell’art. 152 c.p.c., non prorogabile.

Tuttavia, il carattere di perentorietà attribuito ad un termine per lo svolgimento di un’attività lato sensu processuale appare fortemente problematica. Se, infatti, è evidente la ratio acceleratoria della disposizione, occorre considerare che il termine di sei mesi, seppur non ridottissimo, risulta non adeguato nelle ipotesi maggiormente complesse sia da un punto di vista medico legale che da un punto di vista procedurale. Non è, infatti, infrequente che il procedimento duri più di sei mesi, se si considera il tempo necessario per l’instaurazione del contraddittorio o della necessità di integrarlo quando non sia stato convenuto un litisconsorte necessario o di rinnovare notifiche nulle, per le eventuali chiamate di terzo,  per la nomina del collegio peritale che risponda a tutte i requisiti normativamente richiesti, per l’espletamento delle operazioni peritali, per il tentativo di conciliazione, nonché per l’eventuale redazione della relazione (Vittoria Amirante, Note a margine delle Linee Guida in materia di Accertamento Tecnico Preventivo ai sensi dell’articolo 8 Legge 24/2017 pubblicate il 13.2.2020, 15 Febbraio 2021)

Inoltre, assai dubbie risultano essere le conseguenze che l’inosservanza del succitato termine perentorio può comportare.

Taluni hanno, infatti, affermato che in caso di violazione del termine perentorio la conseguenza non potrà che essere quella della inutilizzabilità, nel successivo giudizio, degli accertamenti che dovessero essere espletati dopo la scadenza del predetto termine e a fortiori della relazione che fosse stata depositata dopo quel momento. In tale ottica dunque il giudice del giudizio di merito sarà tenuto a rinnovare quelle attività, con conseguente ritardo e aggravio di costi (Vaccari M. “L’ATP obbligatorio nelle controversie di risarcimento dei danni derivanti da responsabilità sanitaria” in Ridare.it).

Altri (Ruvolo M e Ciardo S. “ Approvata la nuova Legge sulla responsabilità sanitaria, cosa cambia?” in questionegiustizia.it), invece, partendo dal dato testuale della norma affermano che l’unica conseguenza connessa al mancato rispetto del termine perentorio di sei mesi è che l’attore potrà ritenere munita di procedibilità la sua domanda ed instaurare o continuare il giudizio mentre l’attività svolta seppur tardivamente nell’ambito dell’accertamento tecnico tra le medesime parti potrà comunque essere utilizzata nel successivo giudizio di merito. Del resto, la Corte costituzionale ha affermato più volte che la garanzia del diritto di azione tollera dilazioni temporali al suo esercizio, in vista della salvaguardia di interessi generali, come l’alleggerimento del carico di lavoro degli uffici giudiziari (Cfr. Corte cost. n. 276 del 2000).

Al di là della criticabilità del dato normativo, pare comunque preferibile tale ultima tesi e opportuno ritenere che la scadenza del termine semestrale rilevi unicamente ai fini della individuazione del dies a quo dell’ulteriore termine di novanta giorni entro il quale la parte ha l’onere di promuovere il giudizio di merito e non invece per l’attività peritale. Ipotizzare che alla scadenza del termine semestrale il Collegio peritale debba comunque terminare le operazioni e che in caso contrario ogni attività svolta successivamente sarebbe nulla costringerebbe il giudice del giudizio di merito a rinnovare la consulenza vanificando le attività peritali comunque regolarmente compiute (Vittoria Amirante, Note a margine, cit.).

3. Gli effetti della proposizione della domanda giudiziale

Ci si chiede, a questo punto, quali siano gli effetti cui fa riferimento l’art. 8, comma 3, legge 24 citata e quali, pertanto, le conseguenze in caso di inosservanza del termine per il deposito della domanda (90 giorni) qualora il procedimento non si concluda entro i 6 mesi indicati, atteso che il comma 3 dell’art. 8 prevede, appunto, che ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all’articolo 702-bis del codice di procedura civile.

Rispondendo al primo quesito, per “effetti della domanda”, cui la norma si riferisce, pare difficilmente sostenibile che il legislatore abbia voluto intendere effettidi natura sostanziale, posto che se così fosse, spirato il brevissimo termine di sei mesi, il danneggiato perderebbe definitivamente, ma irragionevolmente, il proprio diritto al risarcimento. Una simile conclusione si porrebbe poi in contrasto con il principio di uguaglianza, difettando analoga previsione nel caso in cui l’attore abbia scelto di assolvere la condizione di procedibilità a proprio carico mediante la proposizione di un’istanza di mediazione (M. Muscas, La “nuova” responsabilità medica – Aspetti processuali, www.studiolegalemanca.it).

Si ritiene, invece, che per “effetti della domanda” debbano intendersi quegli effetti che già la presentazione del ricorso introduttivo del procedimento ex art. 696-bis c.p.c. è idoneo a produrre e, dunque, senz’altro, ai sensi dell’art. 2943 c.c., l’interruzione della prescrizione, che si protrae fino alla conclusione del procedimento e, cioè, fino al deposito della relazione del consulente (Cass., 20 aprile 2011, n. 9066). In particolare, la proposizione del ricorso per accertamento tecnico preventivo comporta l’interruzione del termine prescrizionale, ai sensi dell’art. 2943 c.c., co. 1, in relazione al diritto oggetto della richiesta istruttoria, tenuto conto che il ricorso per accertamento tecnico preventivo, in quanto diretto ad acquisire elementi di prova in funzione della conferma della fondatezza della pretesa sostanziale dedotta dal ricorrente, integra la proposizione di un giudizio conservativo, come tale rientrante nell’espressa previsione di cui alla citata norma, configurando un’iniziativa processuale con la quale, il medesimo ricorrente inequivocabilmente manifesta alla controparte la propria volontà di esercitare il diritto in questione (Cass., 20 maggio 2009, n.11743).

Inoltre, poiché, per giurisprudenza consolidata, l’accertamento tecnico preventivo rientra nella categoria dei giudizi conservativi, si dovrebbe includere anche l’effetto sospensivo di cui all’art. 2945, comma 2 c.c..  Secondo autorevole dottrina, la norma assume un significato pregnante ove riferita all’effetto interruttivo permanente, impedendo il decorrere del termine di prescrizione, interrotto dalla notifica del ricorso ex art. 696 bis c.p.c. (anzichè dell’atto introduttivo del giudizio di merito), fino alla pronuncia della decisione del giudizio di merito (G. Trisorio Liuzzi, La riforma della responsabilità professionale sanitaria. I profili processuali, in Giusto proc. civ. 2017; D. Dalfino, Il processo civile per responsabilità medica: condizioni di procedibilità e riparto dell’onere della prova, in www.questionegiustizia.it, 17 settembre 2018; G. Olivieri, Prime impressioni sui profili processuali della responsabilità sanitaria, in www.judicium.it 2017; F. Cuomo Ulloa, Risoluzione alternativa delle controversie in materia di responsabilità sanitaria: le novità della legge Gelli – I Parte, in Resp. 2018).

In conclusione, il deposito del ricorso ex art. 702 bisc.p.c. entro il termine di novanta giorni consente la salvezza non solo dell’interruzione della prescrizione (effetto comunque destinato a non perdersi, potendo l’istanza introduttiva della consulenza tecnica preventiva valere come atto di costituzione in mora ex art. 2943 c.c.), ma anche della sospensione dell’effetto interruttivo.

Si ritiene, in secondo luogo, che fra gli effetti sostanziali della domanda vada incluso anche l’impedimento della decadenza, laddove si ravvisino termini decadenziali con riferimento alle controversie soggette alla condizione di procedibilità di cui all’art. 8 in esame, che invece non viene di norma riconosciuto al ricorso ex art. 696 bis c.p.c..

Per quanto attiene agli effetti processuali della domanda per consulenza tecnica preventiva, viene senz’altro in rilievo l’art. 5 c.p.c., in forza del quale la competenza e la giurisdizione vanno determinate in base allo stato di fatto ed alla legge vigente al momento della domanda e che dunque se il giudizio di merito viene introdotto nel termine prescritto, la competenza e la giurisdizione dovranno essere determinate in base allo stato di fatto e di diritto vigente al momento del deposito del ricorso ai sensi dell’art. 696 bis c.p.c. (mentre la dottrina si interroga se tra gli effetti processuali della domanda vada inclusa anche la litispendenza).

4. Conseguenze in caso di inosservanza del termine di 90 giorni per la proposizione della domanda giudiziale: tesi a confronto

Quanto alle conseguenze in caso di inosservanza del termine per il deposito della domanda (90 giorni) qualora il procedimento non si concluda entro i 6 mesi indicati, non si può non evidenziare come l’art. 8 della Legge Gelli-Bianco preveda una disposizione alquanto equivoca.

La prescrizione, infatti, così come articolata è poco chiara e ha fatto sì che all’indomani della riforma si tentasse di interpretare il testo nel modo più opportuno e senza snaturarne il significato letterale.

In dottrina si è, ad esempio, affermato che oltre alle conseguenze in termini di decadenza dagli effetti prodotti dal deposito della procedura di consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c. si debbano avere anche delle conseguenze sul processo, affermando che qui si avrebbe l’estinzione del processo ai sensi dell’art. 307, comma III, c.p.c. (Consolo-Bertolini-Buonafede, Il “tentativo obbligatorio di conciliazione” nelle forme di cui all’art. 696 bis c.p.c. e il successivo favor per il rito semplificato, in Corr. giur. 2017; V. Amirante, Brevi note sulla legge di riforma della responsabilità sanitaria, in www.questionegiustizia.it, 27 luglio 2017; M. Vaccari, Legge Gelli-Bianco: l’ATP obbligatorio nelle controversie di risarcimento dei danni derivanti da responsabilità sanitaria, in www.ilprocessocivile.it 2017).

Altra parte della dottrina ha ritenuto, invece, che sia da escludere che al decorso del suddetto termine di novanta giorni possa collegarsi una sanzione ulteriore rispetto alla perdita degli effetti della domanda e che, realizzata la condizione di procedibilità, la proposizione della domanda sia da ammettersi anche oltre il suddetto e che termine di novanta giorni, senza che ci si possa più giovare del su richiamato beneficio (G. Olivieri, Prime impressioni, citata; M. Bove, Le condizioni di procedibilità con funzione di prevenzione: problematiche processuali ed opportunità per la giustizia civile, in Giusto proc. civ. 2018)

La giurisprudenza di merito che, fino ad oggi, per quanto consta, si è pronunciata sull’argomento, e fatta eccezione per qualche isolata statuizione, si è espressa, come vedremo di seguito, nel senso di ritenere, seppur con diverse motivazioni, limitate alla sola “perdita degli effetti della domanda” le conseguente nell’ipotesi in cui il giudizio di merito non venga introdotto nel termine di 90 giorni.

Secondo l’orientamento seguito, per esempio, dal Tribunale di Bergamo la norma consentirebbe il deposito del ricorso ex art. 702 bis c.p.c. entro e non oltre 90 giorni dal deposito della consulenza tecnica preventiva a prescindere dal fatto che siano trascorsi o meno sei mesi dall’introduzione del procedimento di Consulenza Tecnica Preventiva. Il Giudice della terza sezione civile del ridetto Tribunale, infatti, nella causa R.G. N.R. 7488/17 ha consentito, ritenendolo preferibile e quindi possibile, il deposito del ricorso ex art. 702 bis c.p.c. una volta avuta la consulenza in seno al procedimento ex art. 696 bis c.p.c. a prescindere dalla durata dello stesso, ponendo come unica prescrizione da rispettare il deposito entro novanta giorni dalla consulenza tecnica. Nella relativa ordinanza si legge infatti “Ritenuto doveroso precisare che ai sensi dell’art- 8 della L. 24/2017, ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se entro novanta giorni dal deposito della relazione è depositato il ricorso di cui all’art. 702 bis c.p.c.”. In altre parole, il Giudice, in questo caso, per dirimere la questione ha volontariamente deciso di elidire dal tenore letterale dell’articolo la seguente frase “…o dalla scadenza del termine perentorio”. Soluzione discutibile ma adottata, con ogni evidenza, per restituire un senso logico alla norma a discapito della sua severa applicazione letterale.

Un’interpretazione di segno opposto, ma certamente più fedele al testo ambiguo della prescrizione contenuta nell’art. 8 della citata legge è quella fornita, all’indomani della riforma, ad esempio, dal Tribunale Civile di Milano (R.G.R.N. 17027/2012 E R.G.R.N. 20155/2017) secondo il quale la norma, così come formulata, sarebbe categorica nell’imporre la decorrenza del termine di novanta giorni dal deposito della consulenza tecnica o dallo scadere del termine semestrale dall’iscrizione a ruolo del ricorso ex art. 696 bis c.p.c., anche nel caso in cui tale ultimo procedimento giudiziale non sia stato ancora definito. In altre parole, secondo il Tribunale meneghino una volta decorsi inutilmente i sei mesi dall’iscrizione a ruolo del ricorso ex art. 696 bis c.p.c. la parte ricorrente sarebbe tenuta, entro i successivi novanta giorni, a depositare presso il medesimo ufficio giudiziario il ricorso previsto dall’art. 702 bis c.p.c. a nulla rilevando che la consulenza tecnica sia stata già depositata o meno, pena la decadenza degli effetti della domanda.

Di tutt’altra convinzione il Tribunale di Savona che, con ordinanza resa in data 6 ottobre 2019 nel procedimento rubricato al n.r.g. 1560/19, in relazione all’eccezione processuale proposta dalla ASL secondo cui la domanda proposta sarebbe stata inammissibile o, comunque, improcedibile per violazione dell’art. 8 della Legge n. 24 del 2017, ha affermato quanto segue.

“Secondo l’interpretazione dominante, il ricorso proposto ex art. 696 bis c.p.c. e quello, poi, promosso ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c. non danno vita a due procedimenti autonomi, ma sono due distinte fasi di un medesimo procedimento, così come avviene ad esempio per i procedimenti possessori che presentano anch’essi una struttura bifasica.

Per quanto riguarda il rispetto del termine di 90 giorni per promuovere il ricorso ex art. 702 bis c.p.c. secondo una prima interpretazione, questo, al pari di quello di sei mesi è perentorio.

La conseguenza di tale ricostruzione è che, se il ricorso ex art. 702 bis c.p.c. non è tempestivamente proposto nel suddetto termine, il processo già pendente si estinguerà, per inattività qualificata delle parti ai sensi dell’art. 307, comma 3, c.p.c..

Secondo un’altra interpretazione, invece, il legislatore con la previsione di cui all’art. 8, comma 3, legge citata, avrebbe costruito una duplice condizione di procedibilità.

Questa potrebbe dirsi soddisfatta consentendo, quindi, una pronuncia di merito solo qualora vengano compiuti entrambi i seguenti adempimenti a) proposizione e conclusione del procedimento ex art. 696 bis c.p.c.; b) proposizione del ricorso ex art. 702 bis c.p.c. nel termine di 90 giorni.

Tuttavia entrambe le interpretazioni sopra menzionate che potrebbero, quindi, ad una pronuncia processuale preclusiva di una sentenza di merito con declaratoria di estinzione o di improcedibilità del giudizio, non convincono.

Infatti, in entrambi i casi in assenza di indicazioni di segno contrario da parte del legislatore, la domanda sarebbe riproponibile tuttavia per renderla procedibile le parti dovrebbero attivare nuovamente il procedimento ex art. 669 bis c.p.c. di mediazione, i cui esiti sono peraltro scontati.

Vi è, poi, un ulteriore profilo di irrazionalità della normativa interpretata come riportato sopra.

Tra le due condizioni di procedibilità previste in alternativa dal legislatore, mediazione e consulenza ex art. 696 bis c.p.c., la legge manifesta una preferenza per quest’ultima, indicando la mediazione come rimedio alternativo.

La soluzione è coerente ove si consideri che il legislatore ritiene la consulenza potenzialmente più efficace della mediazione, evidentemente proprio per la particolare tecnicità della materia.

Tuttavia, il legislatore non è coerente, laddove, tra le due ipotesi alternative previste come condizione di procedibilità della domanda (mediazione e consulenza), di fatto finisce con l’incentivare il ricorso alla mediazione in luogo del ricorso ex art. 669 bis c.p.c., prevedendo, per quest’ultimo, adempimenti ulteriori non previsti per la mediazione (quali, appunto, la promozione del merito in un termine ristretto) che se inottemperati potrebbero impedire una pronuncia nel merito delle pretese.

Infatti, nel caso di mediazione la mancata conciliazione o il decorso del termine massimo previsto per il procedimento integra definitivamente la condizione di procedibilità e consente, quindi, di adire immediatamente il Giudice per ottenere una pronuncia di merito; nel caso di proposizione della domanda di consulenza preventiva, invece, lo svolgimento del procedimento ex art. 696 bis c.p.c. non sarebbe sufficiente per dar vita alla fase di merito, in quanto sarebbe necessario promuoverla nel termine ristretto previsto di 90 giorni.

In sostanza, da un lato il legislatore preferisce lo strumento della consulenza che potrà, poi, rendere più rapida la fase di merito che, quindi, assume le forme più snelle dell’art. 702 bis c.p.c.; dall’altro, però, rende tale strada più tortuosa e meno agevolmente praticabile.

A ciò deve aggiungersi che considerato che il termine di 90 giorni decorre dalla scadenza del termine di sei mesi a prescindere dal fatto che la consulenza sia o meno stata depositata, si avrebbe l’assurdo di un legislatore che, da un lato, offre lo strumento per la conciliazione e, dall’altro, incentiva la parte ad un ricorso al buio, quando ancora non è stata depositata alcuna consulenza e quando, quindi, non è neppure prevedibile l’esito della lite.

Sostenere, quindi, che il mancato rispetto del termine di 90 giorni previsto dall’art. 8 della Legge 24 del 2017 comporti l’estinzione o impedisca, comunque, una decisione nel merito nel successivo giudizio post consulenza porterebbe a conclusioni irrazionali e probabilmente incostituzionali.

A questo deve aggiungersi che “le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga alla disciplina generale, devono essere interpretate in senso non estensivo” (Corte Costituzionale n. 403/07; Cassazione n. 967/04) e, anzi, “devono essere interpretate in senso restrittivo” (Cassazione n. 26560/14), “dovendo limitarsene l’operatività ai soli casi nei quali il rigore estremo è davvero giustificato” (Cassazione n. 6130/11).

L’unica interpretazione razionale possibile (conforme al canone ermeneutico del legislatore consapevole) dell’art. 8 citato è, allora, quella che considera assolta la condizione di procedibilità unicamente con la conclusione del procedimento per consulenza tecnica preventiva o con il decorso del termine di sei mesi.

Il termine di 90 giorni, quindi, non riguarda la condizione di procedibilità ma altra problematica, quella della salvezza degli effetti della domanda, effetti prodotti dalla proposizione del ricorso ex art. 696 bis c.p.c..

Ci si riferisce agli effetti sostanziali della domanda (ad es. gli effetti interruttivi della prescrizione) ed a quelli processuali (si pensi, ad esempio alla litispendenza oppure si pensi al venir meno della obbligatorietà dell’introduzione del giudizio con il ricorso ex art. 702 bis c.p.c. in luogo della citazione).

Il rispetto del termine di 90 giorni per promuovere il ricorso per il giudizio di merito è, quindi, funzionale ad ancorare tali effetti della domanda proposta ex art. 702 bis c.p.c. al precedente ricorso depositato ai sensi dell’art. 696 bis c.p.c..

Come evidenziato dalla migliore dottrina, insomma, se l’attore ha proposto la domanda oltre i detti 90 giorni, semplicemente non si avrà quell’ancoraggio, ma non credo si possa affermare che qui emerga un’ipotesi di estinzione del processo dichiarativo, conseguenza che non avrebbe alcun senso.

Ne discende che l’eccezione di estinzione proposta è infondata ed è possibile una pronuncia nel merito della controversia.”

Circa un anno dopo, il Tribunale di Latina ha confermato l’orientamento espresso dal Tribunale di Savona e pronunciandosi sull’argomento ha statuito quanto segue. La Sezione 2 Civile, con la sentenza del 2 luglio 2020 n. 2831 ha affermato che Pacifico che gli attori abbiano promosso il presente ricorso oltre i 90 giorni dalla scadenza del termine semestrale previsto dall’art. 8 L. 24/201 (7 non appare condivisibile l’interpretazione che parte convenuta fornisce tale norma. Prevede infatti l’art. 8 della legge c.d. Gelli-Bianco, che “Ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all’articolo 702-bis del codice di procedura civile”. L’unica interpretazione ragionevole e costituzionalmente orientata della norma citata e’ che, decorso il termine semestrale senza che sia stato concluso l’ATP la domanda di merito (da introdursi con il ricorso 702 bis epe) diviene comunque procedibile, li termine di gg. 90 invece diviene rilevante processualmente (e deve essere quindi rispettato) solo se i ricorrenti abbiano interesse a far salvi gli effetti della domanda (prescrizioni o decadenze). Solo in tale ipotesi infatti si apprezza la necessità (e il privilegio) che la legge riconosce ai ricorrenti: ovvero far retroagire al deposito del ricorso per ATP l’interruzione della prescrizione o di eventuali altre decadenze. Al di fuori però di tali ipotesi, obbligare i ricorrenti ad agire entro gg. 90 anche ai fini della mera procedibilità della domanda appare privo di logica e, quindi, di dubbia costituzionalità, risultando però compito del giudice di merito offrire, ove possibile, una interpretazione della norma che ne escluda il vizio. Diversamente opinando infatti si dovrebbe ritenere che la norma abbia previsto una improcedibilità a singhiozzo, per cui dapprima la domanda è improcedibile (se non preceduta da ATP o mediazione), poi ritorna procedibile ma solo per gg. 90 (per poi tornare improcedibile). E’ tuttavia la domanda sarebbe ugualmente di nuovo procedibile se il ricorrente iniziasse daccapo la procedura o si premunisse di altra condizione di procedibilità (mediazione). L’irragionevole bizantinismo è palese, laddove invece la procedibilità deve essere considerata in modo binario e definitivo: improcedibile/procedibile. Diverso invece è il discorso relativo agli altri effetti della domanda, laddove infatti, peraltro sempre secondo la medesima logica binaria, o il diritto non è prescritto (perché gli effetti della domanda retroagiscono) o lo è. La domanda attorea è quindi procedibile; ne’ deve essere mutato il rito, essendo gia’ stata indagata, nel pieno contraddittorio delle parti, la questione medico legale, né deve essere rinnovata la C.T.U., risultando pienamente esaustiva quella in atti, ritualmente acquisita e rimasta incontestata tecnicamente, sia in sede di A.t.p. che nella presente fase di cognizione. La domanda attorea, inoltre, non è – pacificamente – prescritta, vertendosi in materia di responsabilità contrattuale e, quindi, di prescrizione decennale ex art. 2946 c.c. (non decorsa neanche alla data di deposito del ricorso ex art. 702 bis c.p.c.).

In sintesi, il Tribunale di Latina ritiene che solo laddove il danneggiato abbia interesse a far salvi gli effetti della domanda (in particolare prescrizione e decadenza) e, nello specifico, a farli retroagire al deposito del ricorso per consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c. il termine di 90 giorni deve necessariamente essere rispettato. Al di fuori però di tale ipotesi, considerare detto termine come obbligatorio apparirebbe, dunque, secondo il Tribunale privo di logica e, quindi, di dubbia costituzionalità, risultando però compito del giudice di merito offrire, ove possibile, una interpretazione della norma che ne escluda il vizio.

La decisione, come anticipato, è conforme all’orientamento espresso dal Tribunale di Savona secondo il quale L’unica interpretazione razionale possibile (conforme al canone ermeneutico del legislatore consapevole) dell’art. 8 citato è, allora, quella che considera assolta la condizione di procedibilità unicamente con la conclusione del procedimento per consulenza tecnica preventiva o con il decorso del termine di sei mesi. Il termine di 90 giorni, quindi, non riguarda la condizione di procedibilità ma altra problematica, quella della salvezza degli effetti della domanda, effetti prodotti dalla proposizione del ricorso ex art. 696 bis c.p.c..

Anche il Tribunale di Roma, dopo aver avuto modo di sperimentare le criticità che si sono manifestate e i correttivi che sono stati approntati per risolvere alcune evidenti asperità interpretative e applicative derivanti dal testo normativo, ha ritenuto di dover rendere noti e così condividere con l’Avvocatura alcuni orientamenti concernenti le modalità di proposizione e trattazione degli accertamenti tecnici preventivi di cui all’art.8 della Legge n. 24/2017.

Con le Linee Guida in materia di accertamento tecnico preventivo ai sensi dell’articolo 8 legge 24/2017, approvate dal Tribunale di Roma durante la riunione ex art. 47 quater O.G. del 13.2.2020 (come noto, le Linee guida impegnano i giudici della Sezione ad attenersi alle indicazioni in esso contenute e si pongono l’obiettivo di meglio indirizzare l’attività processuale delle parti) la Sezione XIII, competente per i procedimenti in materia di responsabilità professionale sanitaria, ha stabilito quanto segue. “3.4 Il termine per la conclusione del procedimento Si ritiene che nel caso in cui non venga rispettato il termine (definito dal legislatore) perentorio di sei mesi per l’espletamento dell’ATP l’attività svolta seppur tardivamente nell’ambito dell’accertamento tecnico tra le medesime parti potrà comunque essere utilizzata nel successivo giudizio di merito. Unica conseguenza del mancato rispetto del termine sarà dunque che l’attore potrà ritenere subito munita di procedibilità la sua domanda e instaurare o continuare il giudizio di merito. Ritenere diversamente e, quindi, ipotizzare che, alla scadenza del termine semestrale, il collegio peritale debba comunque terminare o sospendere le operazioni, condurrebbe a soluzioni decisamente antieconomiche oltre che irrazionali: costringendo il giudice del giudizio di merito a rinnovare la consulenza e vanificando le attività peritali comunque regolarmente compiute. (…) 4.2 La violazione del termine per la proposizione del ricorso. La perentorietà del termine di novanta giorni (dal decorso dei sei mesi dal deposito del ricorso ex art. 8 L. 24/2017 e 696 bis c.p.c.) per il deposito del ricorso ex art. 702 bis c.p.c. ai fini dell’introduzione del giudizio di merito deve essere intesa nel senso che il rispetto del termine sia funzionale esclusivamente a preservare gli effetti sostanziali e processuali della domanda introdotta con il ricorso per ATP e non alla procedibilità della domanda di merito. Se depositato oltre la scadenza del termine di novanta giorni, il ricorso è procedibile, ma può produrre solo ex novo i suoi effetti sostanziali e processuali. La parte che voglia beneficiare della salvezza degli effetti della sua domanda, ha l’onere – a prescindere dallo stato in cui si trova la consulenza – di promuovere il giudizio di merito nelle forme del rito sommario, entro il termine di 90 giorni che decorre dalla scadenza del termine semestrale, anche nel caso in cui questa sia interessata a proseguire il procedimento ex art. 696-bis per conoscere l’esito della relazione e partecipare al tentativo di conciliazione.”

Anche il Tribunale di Milano, più di recente, si è espresso nei medesimi termini con l’ordinanza del 6 Novembre 2019 emessa dal Giudice Dott.ssa Miccichè la quale ha statuito quanto segue.

“Ritenuto che il termine fissato dall’art. 8 co. 3 L. 24/17 – di 6 mesi – vada inteso quale termine dilatorio, decorso il quale l’azione volta al risarcimento del danno da responsabilità dell’esercente la professione sanitaria diviene procedibile;

ritenuto, altresì, che al rispetto dell’ulteriore termine di 90 giorni dal deposito della relazione debba ricondursi esclusivamente la salvezza degli effetti dichiarativi del ricorso ex art. 696 bis c.p.c. (incidenti eventualmente sul decorso di termini prescrizionali o decadenziali);

ritenuto pertanto che non si ponga nel caso di specie – in cui i ricorrenti hanno depositato il ricorso ex art. 702 bis c.p.c. 9 mesi dopo il deposito della relazione peritale ex art. 696 bis c.p.c. – un vizio di inammissibilità né di improcedibilità del ricorso ex art. 702 bis c.p.c.;

Respinge le eccezioni di improcedibilità ed inammissibilità del ricorso ex art. 702 bis c.p.c. e dispone la conversione del rito poichè il giudizio necessita di un’istruzione non sommaria.”.

Il Tribunale meneghino, in altre parole, limitando le conseguenze della mancata osservanza del termine di 90 giorni alla perdita dei soli “effetti dichiarativi del ricorso ex art. 696 bis c.p.c. (incidenti eventualmente sul decorso di termini prescrizionali o decadenziali)” ha testualmente affermato che il deposito del ricorso ex art. 702 bis c.p.c., oltre i 90 giorni previsti dalla Legge 24/2017, non pone alcun “vizio di inammissibilità né di improcedibilità”.

5. Considerazioni finali e conclusioni

L’interpretazione della norma offerta dalla giurisprudenza di merito sembra ad oggi essere l’unica effettivamente accettabile e ciò per una serie di ulteriori ragioni, anche di ordine pratico, che di seguito verranno esposte.

Innanzitutto, ponendo l’attenzione sulla formulazione letterale della norma, si evince che il comma III, dell’art. 8 della Legge 24/2017 non specifica la perentorietà del termine di novanta giorni per il deposito del ricorso ex 702 bis c.p.c., a differenza del termine di sei mesi per l’avveramento della condizione di procedibilità che, di contro, è espressamente definito come perentorio. Pertanto, ubi lex dixit, voluit, ubi lex non dixit, non voluit. Accanto, poi, all’assenza di una qualificazione normativa espressa in termini di perentorietà, vi è anche la circostanza che la suddetta norma prescrive espressamente che il rispetto del termine di novanta giorni per l’avvio della successiva fase sommaria di cognizione con le forme del 702-bis c.p.c. è previsto, dall’art. 8, co.3, L. n. 24/2017, “al fine di far salvi gli effetti della domanda”.

Ciò precisato, non ci si può poi esimere dal rilevare come il termine di sei mesi previsto dall’art. 8 della Legge n. 24 del 2017 appaia assolutamente dissonante rispetto alle effettive tempistiche dei Tribunali. La norma recita, infatti, al comma 3 che “ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso”. E’, tuttavia, noto che nella maggioranza dei casi il procedimento di Consulenza Tecnica Preventiva ha una durata maggiore dei sei mesi previsti, potendo addirittura capitare che a sei mesi dal deposito del ricorso non siano ancora stati nominati neppure i consulenti tecnici o che questi non abbiano ancora prestato giuramento e, comunque, che le indagini peritali non siano ancora iniziate.

A tutto quanto sin qui detto si aggiunga, inoltre, che una diversa interpretazione della norma rispetto a quella fornita dalla giurisprudenza sopra richiamata e, dunque, il ritenere che il mancato rispetto del termine di 90 giorni previsto possa far scaturire conseguenze ulteriori, e più gravi, rispetto a quelle sinteticamente individuate negli “effetti della domanda”, realizzerebbe, a parere di chi scrive, un’aberrazione giuridica, considerando che l’idea fondatrice della riforma era proprio quella di anticipare una consulenza tecnica d’ufficio per evitare il successivo giudizio di merito.

Qualora, di contro, il danneggiato si vedesse, invece, costretto a intraprendere un procedimento sommario senza avere ancora a disposizione la consulenza tecnica e, dunque, senza conoscere la valutazione medico legale, ciò comporterebbe il verificarsi di situazioni antieconomiche e decisamente irrazionali.

Difatti, il danneggiato potrebbe trovarsi costretto a sopportare costi che non potrebbe recuperare, ad esempio nel caso in cui l’esito della consulenza non fosse favorevole e pertanto dovesse rinunciare agli atti del procedimento sommario. In altre parole, dovrebbe accollarsi le spese del processo per un’attività che potrebbe, a posteriori, rivelarsi inutile.

In conclusione, qualora si optasse per un’interpretazione della norma nel senso della perentorietà del termine di 90 giorni, si potrebbe giungere all’assurda conclusione che la parte ricorrente allo scadere dei 9 mesi (6 mesi più 90 giorni) dovrebbe necessariamente introdurre il giudizio di merito senza ancora conoscere gli esiti della consulenza tecnica d’ufficio e, di conseguenza, instaurare una causa che la legge di riforma introducendo il tentativo obbligatorio di conciliazione e il doppio filtro aveva proprio lo scopo di evitare.

Del resto, il favor del Legislatore verso queste forme di risoluzione alternativa delle controversie in ambito sanitario (e non solo) è più che evidente.

Ancora più palese appare, poi, la preferenza accordata dal legislatore alla consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c., mentre il ricorso alla mediazione appare meramente tollerato, posto che la disciplina sembra svilupparsi intorno al solo procedimento ex art. 696 bis c.p.c. (D. Dalfino, Il processo civile per responsabilità medica, citata). E’, infatti, evidente che nel caso in cui l’attore opti per l’accesso alla mediazione ai sensi del d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28, quest’ultima scelta non sia in alcun modo compatibile con il restante contenuto normativo del terzo comma dell’art. 8 di cui si è appena detto. Ed infatti, l’individuazione del dies a quo del termine semestrale entro cui verificare la conciliazione o la conclusione del procedimento, nel “deposito del ricorso» ex art. 696-bis c.p.c.”, fa chiaramente intendere come la norma in parola non abbia introdotto un rito ad hoc per le controversie in parola, non avendo previsto che queste debbano essere sempre e comunque trattate nell’ambito di procedimenti sommari di cognizione. Così come è da escludersi che il termine di 90 giorni per la presentazione del ricorso ex art. 702-bis c.p.c., decorrente infatti “dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine” semestrale di cui s’è detto, possa essere applicato nel differente caso in cui le parti, in luogo dell’A.T.P. in funzione conciliativa, abbiano prescelto la via della mediazione. Non a caso, un orientamento dottrinale relega il ricorso alla mediazione nella sola fase che precede il giudizio di merito, mentre dubita che ad essa possa farsi rinvio nel momento in cui, ai sensi dell’ultimo periodo del richiamato comma 2 ̊, nella prima udienza del giudizio di merito non risulti avverata la condizione di procedibilità e il giudice fissi termine, appunto, “per la presentazione dinanzi a se ́ dell’istanza di consulenza tecnica in via preventiva” (M.A. Zumpano, Profili processuali della nuova legge sul rischio clinico, in Nuove leggi civ. comm. 2017). E’ evidente come nelle intenzioni della Camera la consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c. avrebbe dovuto rappresentare l’unico filtro processuale applicabile in subiecta materia, tuttavia è accaduto che in occasione del passaggio della norma in Senato, il secondo comma sia stato modificato con l’introduzione di un secondo periodo che fa “salva la possibilità di esperire in alternativa il procedimento di mediazione ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (art. 8, co. 2, secondo periodo).

Il tenore delle disposizione contenuta nell’art. 8, comma 4, della Legge n. 24/2017 denota, del resto, con chiarezza l’intento del legislatore di favorire al massimo la partecipazione delle parti al procedimento di consulenza tecnica preventiva ed il raggiungimento di un accordo di conciliazione, sino al punto da adottare, nei confronti della parte che non manifesti un atteggiamento collaborativo, pesanti sanzioni.

In particolare, queste sono di diverso tipo e sono applicate all’esito del successivo giudizio di merito sia in caso di mancata partecipazione delle parti che di mancata formulazione dell’offerta di risarcimento del danno da parte dell’impresa di assicurazione ovvero di mancata comunicazione deimotivi contrari. Nella prima ipotesi, è prevista la condanna al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall’esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione; nella seconda, in caso di sentenza favorevole al danneggiato, è prescritta la trasmissione della copia della sentenza da parte del giudice all’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni(IVASS) per gli adempimenti di propria competenza.

A ciò si aggiunga che il principale vantaggio offerto dalla consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c. si dovrebbe proprio apprezzare sul piano istruttorio posto che la relazione del consulente, nominato dal giudice, può, di norma, essere acquisita nel successivo eventuale processo, visto il disposto di cui al quinto comma dell’art. 696-bis c.p.c., in virtù del quale, se la conciliazione non riesce “ciascuna parte può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito”. Utilizzo che invece sarebbe inibito, qualora si optasse per una differente interpretazione della norma in tema di conseguenze legate alla mancata osservanza del termine di 90 giorni previsto dall’art. 8 Legge citata.

Circa la rilevanza della consulenza tecnica d’ufficio effettuata durante il procedimento previsto dall’art. 696 bis c.p.c., si consideri, anche, che il legislatore ha previsto un necessario collegamento tra il procedimento di consulenza tecnica preventiva ed il successivo procedimento di merito, proprio prevedendo che quest’ultimo si svolga secondo le forme del rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702 bis e ss. c.p.c.. L’acquisizione e, dunque, l’utilizzo della consulenza tecnica d’ufficio durante il successivo giudizio di merito risulta ancora più necessaria laddove si consideri che il processo sommario è un rito semplificato, più rapido e ideato proprio per controversie che non presentino particolare complessità o che non richiedano una istruttoria molto approfondita, che, dunque, potrebbero definirsi di pronta soluzione. Orbene, non può essere posto in dubbio che in tale materia le controversie siano tutt’altro che di pronta soluzione, salvo, appunto, non sia stata già accertata, tramite consulenza tecnica d’ufficio, l’eventuale responsabilità sanitaria e la quantificazione del danno.

Per tutto quanto fin qui esposto, non può che ritenersi che l’obiettivo del legislatore fosse proprio quello di consentire la cristallizzazione preventiva di un mezzo di prova tecnico da acquisire al successivo processo tramite la procedura del 702 bis c.p.c. (Francesco Gabriele, La Legge Gelli – Bianco: il doppio filtro di procedibilità e le potenzialità normative ancora non utilizzabili dal danneggiato, Il Sole 24 Ore, 15 dicembre 2020).

In conclusione, dunque, la soluzione proposta dalla normativa dovrebbe essere proprio quella di anticipare il giudizio tecnico di accertamento della malpractise medico-sanitaria all’interno del procedimento obbligatorio, previsto come condizione di procedibilità affinchè le parti, consapevoli degli esiti, positivi o negativi che siano, della consulenza tecnica espletata possano desistere dal promuovere il successivo procedimento di merito. Tale esigenza e ratio non potrebbero che contrastare con un’interpretazione dell’art. 8 della Legge 24/2017 che, andando oltre il dato letterale, preveda, a carico della parte che non abbia introdotto il giudizio di merito entro 9 mesi (6 mesi più 90 giorni), conseguenze ulteriori rispetto a quella già prevista dall’articolo 8, in punto di impossibilità di poter beneficiare degli effetti prodotti dal deposito dell’originaria domanda di consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis c.p.c..

Come infatti, correttamente espresso, di recente, dal Tribunale di Roma, nelle Linee Guida citate, la perentorietà del termine di novanta giorni (…) per il deposito del ricorso ex art. 702 bis c.p.c. ai fini dell’introduzione del giudizio di merito deve essere intesa nel senso che il rispetto del termine sia funzionale esclusivamente a preservare gli effetti sostanziali e processuali della domanda introdotta con il ricorso per ATP e non alla procedibilità della domanda di merito. Se depositato oltre la scadenza del termine di novanta giorni, il ricorso è procedibile, ma può produrre solo ex novo i suoi effetti sostanziali e processuali. La parte che voglia beneficiare della salvezza degli effetti della sua domanda, ha l’onere – a prescindere dallo stato in cui si trova la consulenza – di promuovere il giudizio di merito nelle forme del rito sommario, entro il termine di 90 giorni che decorre dalla scadenza del termine semestrale (…).

Avv. Elisabetta Calvario, MLT Partners